mercoledì 7 dicembre 2011

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venerdì
E finalmente arrivò il venerdì, assieme al tanto lungamente previsto giuliacciano freddo assassino per noialtri teneri virgulti di basilico di Prà in minigonna, e ad un feroce malditestadamiecose tutto per me.
Famelica, mezza congelata dal giro canino e col mio bel pacco di tampax in borsa, varcare la soglia della mia grotta, stimolare le ambizioni carrieriste della mia caldaia, masturbare il frigorifero e sprangare fuori il mondo sono state ieri le mie priorità nella vita fino alle nove circa, quando miss Jekill dallo specchio ha pensato bene di stravolgermi il programma di accozzamento digestivo e tirare fuori gli stivali cuissard.
Quella donna tremenda mi porterà a una fine precoce, possibilmente infartuata avvinghiata a un giovane e focoso amante.
Invece quelle monelle delle mie ragazze mi han portato a perdermi in giro per chiacchiere e bar della città vecchia.
Il tamtam degli sms ci convocava per le dieci e mezza in quello che da quartier generale della lotta all’anoressia è adesso il nascondiglio coniugale della nostra (ogni tanto) dissequestrata Miriam, che per ora se l’è cavata con radicale taglio di capelli, ma almeno ce l’hanno ridata con orecchie e dita ancora intere.
Tanta era la mia ferma intenzione di starmene a casa che alle dieci ero già attaccata al suo citofono,
e mentre il previdente Giobatta si incastrava rassegnato nella doccia prima dell’invasione del resto della squadra di ritoccatrici di rossetti dalle vesciche deboli, io declinavo morigerate pere cotte e seconda ripassata ai provini fotografici del fausto sposalizio in favore di ben più lasciva cesta di cioccolatini epifanici, esotiche regalie liquorose e souvenir alcolici del viaggio di nozze in Perù.
Nel tempo necessario alla declamazione di recenti bottini di saldi scarpeschi e alla degustazione del corroborante prodotto di portentosa caffettierina elettrica novella son arrivate le altre, la Franca e il suo altrettanto impossibile da lasciar lì stivale nuovo, la Wanda e la sua frangetta strappa-sorrisi e per ultima la Jolanda, anche lei in divisa d’ordinanza nera e stivale.
La divina Ines era a cavalcare innevate vette alpine tutto il uiken, mentre la piccola guerriera, la Tina, era precipata nel pozzo virale di un febbrone da cavallo.
Son quindi volati cubetti di ghiaccio e diversi tappi di bottiglia, che forza di parlare si secca la lingua, e la disidratazione si sa, è la nemica numero uno della pelle e causa di rughe.
Il dibattito è partito dall’unanime gradimento dei rinnovati capelli della Wanda, passando poi all’ilare rendiconto di scandalosi riporti e sospetti toupet di ignari nuovi colleghi della Jolanda (una volta per tutte, cari ometti, meglio una crapa pelata portata con dignitosa nonchalanche, che farsi prendere per il culo da tutta, ma proprio tutta, l’altra metà del cielo sotto i sessanta), con digressioni modaiole di sontuoso collo di volpe azzurra su giacchino di astrakan cartazucchero di una controparte della Miriam ed esaurendo l’argomento “pilifero” con l’approvazione generale dell’intenzione della stessa alla soluzione definitiva di certi trascurabili peletti facciali.
Passata la mezzanotte cinque ciangottanti fattucchiere in stivali e un solo paziente stregone, ma bello grosso, son scese in strada a sentire che aria fresca tirava
Tirava aria che in piazza delle Erbe un giocoliere a torso nudo faceva rotear torce fiammanti e un pubblico di ragazzini faceva girare sigarette odorose e bicchieri croccanti, e così siam riparate al solito ritrovo, che quando fuori fa un freddommaialo l’accoglienza di un barista che ti saluta per nome come la tua mamma ti scalda il cuore meglio di un maraschino croato o un’aguardiente andina.
S’è ancora bevuto, s’è tanto ballato, s’è fatta un po’ di coda per il bagno (con la carta) e nel frattempo s’è sempre chiacchierato. La sera mi è scivolata via come una sorsata di becks, con amici che di lavoro fanno i viaggiatori d’Egitto, con contundenti sconosciuti dai piedi pesanti che non si sa dove andassero ma si intuiva dalle profuse scuse d’aria fritta da dove venivano, con ritrovate leggiadre fanciulle trasfertiste meneghine, con giovani tuttofare dalla pelle di seta scura che li riconosci al buio dal sorriso e dal gallone di dopobarba, e con il capitano della balera, il Berto della Jolanda, che non sai mai se ci è o ci fa e allora ci fai pure tu e cosi lui ti dice oh ma ci sei e tu allora ce lo mandi e finisce che lui ride che te l’ha fatta e tu pure ridi a vedere lui. Ormai lo vedo e rido direttamente.
In qualche momento dopo le due mi son accorta di aver sonno, ho trovato la mia miss Jekill che si stava scolando la sesta birra ipnotizzata da un non meglio identificato fossile alimentare sedimentato sulla lente sinistra dell’enorme paio di occhiali di tal gagliardo e chiacchierone sedicente nipote di nonno donnaiolo sorprendentemente spirato novantenne tra le braccia di una mignotta di buon cuore,  l’ho portata via  per un orecchio e siam partite alla volta di casa.
L’ultimo pensiero prima di svenire come una zecca sazia nel mio soffice nido di cinque cuscini e una coperta di piume è stato per i pensieri preoccupati di un’amica, poi per i miei, di pensieri, che non avevo avuto grazie alla serata, proprio stavolta che il fazzoletto di carta ce lo avevo, con su scribacchiato un numero di telefono, che probabilmente non avrei mai composto, ma che mi era servito lo stesso. 


il giorno dopo - il primo giorno di
Mezzogiorno di sabato, a spasso con una pesante corona di chiodi alcolico-ormonali e le dita calde e moleste del sole piantate negli occhi a indagare sulle mie inconciliabili responsabilità di cinofila beona mi maledico per il soffocante collo alto infilato alla cieca da mezz’ora sull’insospettabile canotta del mio pigiama da supergirl e per il testardo bicchiere della staffa ingoiato da scostumata coppetta cinese dal fondo pornografico sette ore prima.
Poco più avanti il mio adorato coinquilino riluce peloso zampettando sguinzagliato e ottimista esemplificandomi il sunto della felicità maschile pisciando sull’intelligenza cartonata dei manifesti della Marta Vincenzi (una sindachessa? Naaaaa..), ficcando il naso tra le cosce bionde di una cagnetta compiacente e rincorrendo una stupida palla.
Manca solo che dal cielo cada un pollo arrosto, ma pazienza, la perfezione non è di questo mondo.
L’analgesico benedetto sta soavemente facendo il suo lavoro, accarezzo drogata a mia volta il sogno animalesco dello sfrigolare sanguinolento sulla ghisa della mattonella di filetto custodita dal frigo fedele, forse ci sta anche un’incursione in cantina (fanculo il mal di testa, dannato ciclo), e poi agognato cazzeggio di divano, di libro, di parole scritte e musiche ascoltate, e mani affondate nel manto di seta fulva e canini fetenti a giocare alla piccola lotta sul tappeto.
Quanto è labile il confine tra il libero amore per la solitudine e il sentirsi soli per imposizione altrui?


cuore di mamma, ugola di moglie
A metà strada nella zona franca dell’indolenza in cui mi perdo giustificata in “quei giorni”, quando le altre si lanciano dagli elicotteri e volano sui petali blu mentre io mandandole cordialmente a quel paese mi trascino serena dall’abbraccio del divano allo sguardo vacuo del mio severo frigorifero riducendo al minimo l’educato contatto col resto del mondo per le passeggiate cacatorie del mio canetto, proprio lì nel mezzo ci sono le spedizioni alla ricerca di coccole alimentari dal Cartier di quartiere. 
Oggi c’è pure il sole tiepido a invogliarmi alla caccia e ad illuminare le mie contorsioni di regina del bondage di guinzaglio dispettoso e di fustigante paletta al mio fianco.
Al ritorno fiero col mio bottino di barattolo di crema di marroni in una mano e cane marrone nell’altra incedo con la vitalità di un bradipo con una scatola di polistirolo al posto del cervello sedato, badando bene ai fatti miei e a non pestare niente di ciò che offre la generosa maleducazione dei miei concittadini.
Mi appresto a doppiare soave quadretto di affettuosa madre che cinguetta a gorgheggiante pupo incarriolato accorciando il guinzaglio di Cujo. Che carini, penso, lei graziosamente elegante nella tenuta metropolitan-sportiva della genitrice moderna, e il piccolo Pavarotti glabro tutto rosa e beatamente grasso, meno male che non è mio oggi.
Al momento cruciale del nostro passaggio la dolce signora si volta berciando strega all’indirizzo del presunto marito seminascosto tra la spesa di un bagagliaio intimandogli di recarle immediatamente una miracolosa copertina salvavita.
Lo spostamento d’aria dei portentosi polmoni della mammina trasformista vanifica in un istante tutti i miei pietosi sforzi di camminare in linea retta, scuotendomi i quattro neuroni e due antalgil della mia scatola di prima, scorticandomi i nervi e dissolvendo la coda al mio setter, altra razza non proprio nota per il proprio coraggio, come i conigli e gli ausiliari del traffico.
Io in tutta umiltà ammetto di non esser pratica di ste robe, ma ho come la vaga impressione che le segretarie, colleghe o postine che finiscono poi per diventare amanti non usino lo stesso tono.
O forse che i mariti dopo che son diventati padri diventano pure sordi?



il migliore amico dell'uomo
In senso lato e più stanziale potrebbe essere il televisore, ma nello specifico aristotelico di uomo inteso come animale sociale, e magari pensante, e ancor più nell’insignificante dettaglio di questa femmina digitante devo banalmente associarmi a tanti disperati che incontro quotidianamente flagellati dalle intemperie e ammettere che il mio cane occupa un posto di rilievo nei miei aridi ventricoli di solitaria bipede.
E in considerazione della mia consumata diffidenza delle conoscenze umane maschili per il loro più o meno educato innato istinto copulatorio nei miei confronti, il fatto che il mio coinquilino fulvo dotato di scroto e discreto pene sia trasparente nelle sue intenzioni di mantenuto ai soli fini alimentati e logistici lo incorona senza dubbio a mio miglior amico di sempre.
Il mio cane non mi giudica per la mia ispida scarsa propensione antimeridiana alla dialettica prima del mio terzo caffè, ci capiamo a rantolii, e non discute con me su chi abbia ragione e a che ora rientro o con chi.
Per contro approfitta spesso della mia ritrosia a farmi allungare le braccia, e si permette spavalde trottate libere al ridicolo prezzo di un ritorno garantito al primo fischio, mai in un essere umano ho potuto sperimentare una simile sensazione di fiduciosa libertà. O soddisfacente tirannia.
Ci dividiamo gli spazi domestici come due vecchi coniugi affettuosi, e le passeggiate senza una meta come due giovani scout incoscienti o le accese discussioni con i camionisti che quotidianamente mi sfondano la porta dell’ufficio per dirmi quanto amano la loro professione.
Come in tutte le relazioni maschio-femmina inevitabilmente il lavoro più ingrato tocca a me: preparare il cibo e occuparmi della sua biancheria, difendere la casa dai suoi peli e dai suoi fluidi corporei, o spalare merda. Ma tutto avviene con la mia consolante consapevolezza di non sentirlo mai commentare negativamente e di non vederlo scappare con una segretaria ventenne prima o poi.
Curiosamente non scelsi io questo piccolo mostro che mi riempie di affetto e di bave, lo ereditai da una vita matrimoniale irresponsabile insieme ai bagagli che riuscii a portar via in una notte di pioggia nera e ultime accuse.
Mi seguì scodinzolante e fiducioso, per un anno randagio tra traslochi, cantieri, pavimenti freddi e notti fumose al bancone di un bar o albe attorno a un tavolo. Quando finalmente finì la mia corsa verso un’esistenza più addomesticata si accomodò sulla sua brandina, scoreggiò imperturbato e svenne nel suo mondo di polli arrosto che saltano staccionate e gatti senza zampe.
Ancora ogni tanto mi perdo a guardare sta cosa animata e puzzolente che scandisce la mia vita, che mi obbliga quotidianamente al contatto coi miei simili, che fornisce un alibi alle mie peregrinazioni pensierose e che mi strappa alle lusinghe del mio incallito egoismo.
E io che da bastarda l’ho chiamato Rocco e non gli ho manco mai trovato una cagnetta per un’ora d’amore dietro un cespuglio…


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