mercoledì 7 dicembre 2011

archivio

Axel dagli occhi che sorridono
L’avevo appena notato, entrando in palestra, che si stava distrattamente lasciando baciare da una bella signora bionda.
Non c’era quasi nessuno oggi, il giovedì è sempre un giorno tranquillo.
L’ho ritrovato a sbirciarmi da dietro una porta socchiusa dello spogliatoio.
Biondo, occhi blu, un bel tipo.
E ho fatto finta di niente.
Alla terza volta che l’ho beccato a fissarmi, in silenzio, osservandomi spalmare, lentamente, dalle caviglie a salire, con gesti di cure abituali, la crema, gli ho sorriso.
E lui ha ricambiato.
Mi è caduto il tappo.
E lui si è fatto coraggio, e si è avvicinato a raccoglierlo.
Sempre con gli occhi fissi su di me, sempre con il suo sorriso.
Non ci mai siamo parlati.
Con la voce.
Il suo nome l’ho appreso quando sua mamma è se lo è portato via in braccio.






Torno Subito
Alla terza lettura ancora non aveva ben chiaro cosa intendesse lo spazio vuoto tra le parole di quella lettera.
E tantomeno quale sarebbe stata la degna risposta.
Appoggiandosi allo schienale, oscillò leggermente all’indietro, un po’ più lontano da quello schermo. Troppo bianco.
Una ciocca bruna sfuggì la stretta di tartaruga del fermaglio, accomodandosi pigra di traverso, sfatta, incurante del fastidio recato agli occhi. Troppo blu.
La mano si sollevò in indolente automatismo, liberando tutta la densa matassa, ma solo per poco, solo per aggiungervi il ciuffetto disertore e ripristinare una concentrata disciplina.
Al ritorno, distratta, si soffermò a massaggiare dolcemente la pelle tesa del collo, scivolando più giù, sulla spalla, a impastare lentiggini e burro di candida seta, scontrando un arrendevole laccio vezzoso.  Rosa.
Corrugando un pensiero per il sollievo al grato contatto.
Che poi scappò.
Altre lettere, altri enigmi, altre mani a scostarle i capelli, altre manovre ad inarcarle la schiena.
Un sospiro impercettibile, quasi un respiro, soffocato da quello meccanico del condizionatore, deglutendo.
Un piccolo morso finito in carezza a inumidire le labbra. Rosa.
Un piccolo sogno in aiuto.
Lisciando compitamente il palmo sulle cosce, controllò, attraverso il tessuto discreto della gonna, che alzandosi i ganci avrebbero fatto il loro lavoro lì sotto, reggendo ciascuno il peso di una nebbia di nylon e desiderio.
Si voltò, cercando con lo sguardo.
Forzò col dorso il metallo della cerniera, affondando tutta la mano in altra pelle, arrendevole, scura e costosa, alla ricerca di un oggetto noto alla sua, di pelle, delle sue dita indagatrici, delle sue unghie laccate. Rosa.
Troppo grandi, le borse delle donne.
Lunga caccia,  piccola fortuna.
Un cilindro di materiale plastico, freddo e ora necessario. Rosa.
 “Torno subito” – annunciò, avviandosi alla porta, con un cenno di avido sorriso, e di promessa.
In una mano un sottile vizio impaziente, nell’altra, finalmente, il dannato accendino.
Di un tremendo color dentiera.



Sa(n)remo dei pazzi?
Sabato, con la Wanda ci si lasciò precettare dolcemente dalla Jolanda per cena trash “Finalissima Sanremo”, infallibilmente allettate dalla promessa di manicaretti ipocalorici puntualmente disattesa da famigerato pacchettino blu finale, nascondiglio di un trionfo di panna, meringa e mandorle in un abbraccio di cioccolato.
Al diavolo. Un vero spettacolo.
Non so come, dalle trasgressioni gastronomiche, anziché scivolare sulle nuove impegnative collezioni di pret à porter primavera estate si finì per intavolare un vivace dibattito tripartitico sulla legalizzazione degli stupefacenti.
Forse fu colpa del merlot. Boh.
Da una parte il catto-consevatorismo di un’auspicata obbedienza al precetto di non commettere il reato tout-court, dall’altra il cinico-realismo dell’evidente stato di fatto, tanto valesse che lo Stato stesso ci guadagnasse tassandolo pure.
Nel mezzo io, impenitente, più interessata a studiare perché le droghe esistano e a come curare le cause disperate e gli effetti devastanti di questo sempre più diffuso e sregolato passatempo criminale per adulti.
Tutto il frivolo cicaleccio però ci impedì il giusto grado di concentrazione, distraendoci dal seguire le untuose dichiarazioni del Pippo nazionale e della ipersorridente svizzerotta sua, abbandonandoli nella loro pozza a sguazzar tra ugole, buoni sentimenti e petali, ignari del resto del mondo, persino del disturbo visivo arrecato dallo sfregio tatuato all’eleganza di splendidi abiti e degli sbatacchiamenti di dentiere sbaciucchianti.
Alfine bisognose di rinfrancanti bevande per le nostre di provate gole, e quindi già incappottate e col piede sull’uscio, ci siamo zittite solo per gli elogi ai premiati, e,  prima volta per me, ad ascoltare davvero le parole del bis del buon Cristicchi vincitore.
E mi ha fregato. Cazzo.
Mi sono commossa alla sua poesia, alla storia del suo Antonio, e colando una linea scura di mascara giù per la guancia, son tornata ragazzina, col senno di poi.
Intorno ai miei dieci anni traslocammo in un’area più silenziosa della città di quella del castello con vista mercato ortofrutticolo, con gran sollievo delle notti insonni di mia madre, ma con afflizione e terrore mio.
Il quartiere infatti ospitava al tempo uno dei più grandi ospedali psichiatrici d’Italia, una serie di edifici austeri dell’inizio del secolo dalle lunghe finestre senza tende, circondata da un parco semi deserto e altissime inferriate puntute.
Scomodi suoni e misteriose figure provenivano da quel posto decadente.
Quelle giudicate meno violente scivolavano quotidianamente oltre alla guardiola d’ingresso e popolavano il microcosmo dove mi trovavo a tornare dalla mia nuova scuola, già duramente provata dal paralizzante contatto col mondo dei maschi affascinati dai miei calzettoni, disorientata dalla girandola di professori che volevano la pelle della mia indolenza sognatrice e dalla caciara oligarchica del 43 sbarrato pieno di ragazzini che avevano frequentato assieme le elementari.
Nel deserto dell’ora di pranzo scorgevo da lontano questi mostri incompresi, i “matti”, progettando strategiche e scapicollanti fughe sul lato opposto della strada.
Tra questi c’era Bernadette, la religiosa, una sorridente donnona senza età né dimestichezza col sapone, dalle lunghe trecce grigio-bionde e dai denti dello stesso colore. Si aggirava senza meta apparente, in realtà in puntuale attesa delle funzioni religiose, durante le quali ossessionava la pazienza del mite Parroco che a forza di rosari in dono sperava inutilmente di dissuaderla dall’attaccarsi alla campanella suonando come un autopompa dei Vigili del Fuoco inneggiante alla Madonna e a tutta una squadra di Santi.
C’era Girolamo, il piscione,  un arzillo e galante vecchietto assai propenso a declamare in tono baritonale l’appassionato, e molto poco platonico apprezzamento per le autoctone grazie femminili, finalizzato in realtà alla fantasiosa estorsione di qualche spicciolo per un “gottin de giancu” (bicchierino di vino bianco) che inevitabilmente andava poi ad innaffiare sotto forma di graffiti maleodoranti tutti i muri in vista della zona.
e poi c’era lei, il mio terrore, la Irma, la fumatrice. Una grinza vivente, secca secca e piccolina, dalle mani color senape e gli occhi inquisitivi. Ti aspettava acquattata dietro le fioriere di pitosforo spelacchiato del tabacchino e ti seguiva per metri cantilenando la sua supplica insistente di un obolo per comprarsi le sigarette.
Quando, come spessissimo accadeva, si faceva finalmente strada nella sua nebbia la rassegnata certezza che una timida studentessa di ritorno da scuola in effetti poteva anche non avere denaro con sé, la reazione era, almeno per me, devastante.
Un sommesso mugolio, poi un piccolo pianto gorgogliante, di bambina odorosa di tabacco stantio, con lacrime vere e inarrestabili lungo i solchi delle sue rughe, proprio lì, in mezzo alla strada, disperatamente incurante di tutto.
Non potendo consolarla, io con la mia tasca vuota e lei con la sua inespugnabile barriera mentale, sprofondavo impotente in uno sgomento imbarazzo, abbassavo gli occhi e, appena potevo, scappavo via, infelice per entrambe.
All’epoca pensavo che a trent’anni sarei stata anch’io vecchia, accasata felicemente col sosia di Terence (di Candy Candy) e con un paio di marmocchi uno rosa e l’altro celeste, a riempire il nostro camper di Barbie con piscina smontabile e pony annessi. 
Mica lo sapevo che a sedici avrei iniziato anch’io a coltivare lo stesso bastardo vizio puzzolente.
E soprattutto non potevo immaginare quante volte ancora nella vita, fuori da un manicomio, tra sani di mente, mi sarei scontrata impotente contro il muro dell’incomprensione, dell’incomunicabilità, con un doloroso mostro dentro, che avrebbe fatto piangere ancora altre calde lacrime di frustrazione.

Nessun commento:

Posta un commento