giovedì 1 dicembre 2011

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Onaznera, il paese sospeso.
 C’è un piccolo villaggio lungo la costa di ponente, incastrato tra un mare verde cromo che custodisce un relitto sbudellato e unto e le montagne abbrustolite dai cretini estivi, dove mi rifugio a sognare, solitamente al giovedì a cena, senza l’armatura che mi copre in ogni altro giorno.
Lo scoprii per caso, molto tempo fa, grazie a uno scherzo di carnevale ventenne, gentile e pruriginoso, subito dal Destino, che da allora ho smesso di tormentare coi miei petulanti perché, visto che intanto decide tutto lui.
Era una sera cittadina di febbraio in maschera che mi stavo maledicendo per l’insopportabile e assai poco elegante grattarola che tormentava mio cranio imparruccato di maliziosa camerierina ricciola e bionda in autoreggenti e tacco assassino, quando notai con la compassione insegnatami dalle suorine del liceo qualcuno che stava sicuramente peggio di me.
Poco distante infatti, nell’abbietto forno crematorio adibito a discoteca, un ragazzo moro, vestito da gorilla, si stava giusto sfilando la maschera per imprecare più liberamente. 
Ci guardammo un istante, mi persi nei suoi occhi color lucertola e per un paio d’anni da allora fummo inseparabili compagni di baci famelici, risate lacrimanti, spaghettate di mezzanotte aglio olio e troppo peperoncino e birre sgasate, fino a un paio di ultimi mesi da spietati avversari ingrati di scazzi furiosi e laceranti silenzi.
L’amato gorilla risiedeva all’epoca a Onaznera, con un padre spagnolo teneramente appassionato di sigari ammorbanti e del proprio figlio, una nonna assai discreta, o forse solo un po’ sorda, e un feroce felino centenario.
Fu allora che misi a frutto l’intraprendenza sopita nel mio sangue britannico e la patente presa da un anno per razzolare pavida in città, imparando nel giro di poco come funziona un casello autostradale, come si gira una canna e una cassetta da 90 di Toots & the Maytails,  e come non basti essere un grazioso musetto afono per avere una prima storia seria.
L’amore ahimè un certo giorno svanì, l’adorabile e snervante ragazzo all’epoca studiava giurisprudenza e infatti oggi fa il comico in tv, ma, fatto alquanto inusuale, alcune amicizie allacciate a quel tempo restano fermamente avvinte alla mia anima vagabonda.
Due in particolare sono le ragazze che solo a pensarle mi scappa un sorriso caldo di croccante alla mandorla e un sospiro dolce di pera cotta e cannella, e sono le mie sognatrici di Onaznera.
Il paese da allora purtroppo è di molto cambiato.
Ancora accarezzo il ricordo del primitivo ridente villaggio di pescatori musoni con le sue spiagge da fachiro, sconsiderate fioriere sparse, posteggio libero e un solo negozio di scarpe decente, orgogliosamente incastrato tra una lasciva focacceria e le caste vetrine di una merceria con le sue candide mutande ascellari crocefisse tra calze contenitive color ittero spesse come mute da sub e flanelloni carcerari.
Il prepotente progresso e l’avida giunta comunale hanno ad oggi arricchito l’indolente comunità di una mastodontica caserma della Benemerita, un delirante centro commerciale, un benzinaio degno di Las Vegas, esosi parchimetri e un tappeto viscido di gres al posto dei millenari lastricati.
Oggi l’unica testimonianza della passione ludica degli indigeni resta un piccolo cinematografo gestito da veraci appassionati dal discutibile buon gusto e rispetto per la quiete pubblica, e dalla costante fruttuosa presenza di un numero scandalosamente elevato di bar, pub e ristoranti pro-capite.
La stagione che preferisco per perdermi qui tra le palme tremebonde e la ruvida salsedine e riconquistare l’eco dell’accento locale e sgraffignare sorrisi sghembi è quello del letargo invernale.
D’estate la mia vista è imprigionata da file di cabine e offesa da mandrie indisciplinate di mangiatori di gelato dalle lingue vaccine,  il mio sognare è troppo spesso disturbato da nordici soprusi, dettati da non so quale esuberante diritto del vacanziero e strattonato dall’evidente calo delle riserve di pazienza di commercianti e ristoratori.
Appena le nostre giornate e l’esodo turistico ce lo permettono sfido lo spostamento d’aria dei tir e la prepotenza degli abbaglianti delle Audi  e lancio la mia impavida Ka sgangherata all’inseguimento di progetti delinquenziali, che si realizzano regolarmente, di gastronomiche trasgressioni, scostumati pettegolezzi e ricchi baratti di abbigliamento femminile con le mie sognatrici di Onaznera.
In quel momento torno me stessa, nella mia pelle, la vita spigolosa dell’ex-ragazza ventenne, nel bene e nel male, si scioglie nel mulinare di vino rosso, manicaretti profumati e dettagli piccanti e bonari di famiglie indigene allargate e giochi di sorprendenti coppie nuove o tradite, sogni di uomini possibili e ricordi di amori sfumati, di lavori in corso e di liste di cose da fare da qui alla pensione.
In mezzo a tante parole riesco per poco a sfiorare nascosta nell’espressione dei volti a me così familiari quanta luce c’è nell’amare le stesse persone da così tanto tempo.
Così Onaznera per me resta sempre come sospeso, a galleggiare fluttuante, resta  il paese sospeso nell’affetto.

 Le sognatrici di Onaznera
Le mie sognatrici di Onaznera, sorprendenti eredità di un amore acerbo ritrovate nella mia vita in un periodo di quelli che ti frughi l’anima come un cassetto ladro di serenità, mi salutano incorniciate ogni sera al mio ritorno dalla credenzina sottratta con estenuanti moine e bei soldi a una deliziosa ma irremovibile coppia di zufolanti gemelline restauratrici di vico del Fieno.
Sorridono un po’ scomposte dalla foto del mio rifugio, quando era ancora solo arredato di 4 sedie riecheggianti, un tavolo sghembo, un trapano sempre acceso e tanta riconquistata libertà, e mi sorridono ancora più sfacciate di persona tanti miei giovedì quando con la scusa del cibo squisito e del buon vino ci nutriamo di reciproci successi e sgomenti.
Sono la Bianca, la Rosa e la Porpora.
Bianca in realtà è verde, verde brillante come le raganelle arboree che popolano i laghetti tra i boschi ombrosi di pino e di muschio alle spalle di Onaznera e ed è nella mia mente come il profumo dell’erba tagliata o dell’aria di mare corrucciata che le riempie le stanze quando finalmente svaniscono gli ultimi ammorbanti olii di cocco settembrini.
Vive di colori a tempera irriverenti e sbarazzini e foto di spiaggia in bianco e nero, di favole moderne, di fiori di carta e sandaletti da trappista, di baci ruvidi e sugosi del suo forse spinone anarchico, di fantastici tortini di verdura e un polpettone della madonna, di fumo di sigarette e passeggiate senza orologio, di un armadio quasi senza gonne e un solo paio di scarpe col tacco, di abbracci e brontolii di un giovane letterato dalla mente inquisitiva, e di una realtà prepotente di stipendio che gestisce con determinato buonsenso da dietro una scrivania.
Non ho mai paura di parlarle di me, nelle nostre discussioni di visionarie non sempre concordi non ho mai letto un rifiuto o un rimprovero nei suoi grandi occhi di cerbiatta, perennemente stupefatti della bellezza del mondo che le vedo cogliere nei più piccoli dettagli della fragilità umana di paese, dallo scodinzolio furtivo del suo ladruncolo impunito alla perfezione corrotta di un peperone ripieno rimasto troppo in forno che noi lavandine spazzoliamo comunque beate e anzi ben grate.
Rosa invece è proprio rosa, rosa denso come il ripieno di fragola di un cioccolatino fondente a forma di cuore, o rosa  pastello come l’elastico del suo 150esimo paio di mutandine a fiorellini pagato quasi un cazzo, o rosa confetto come l’ultima  nuvola in fondo a sinistra, sulla collina vista mondo dove vive, bussare forte mi raccomando.
Vive di modelli di carta velina, impalpabili chiffon dai mille colori e croccanti sete cangianti per realizzare abiti in oriente e rivenderli al nostro mondo di taglie incomprensibili per quei piccoli sarti gentili e zucconi dagli occhi allungati. Nella sua ben più terrena guerra dei numeri in magazzino può contare fortunatamente sull’affettuoso scudo di un compagno paziente, che probabilmente si è rassegnato da mò all’irrefrenabile propensione all’accumulo incurante delle quisquilie pecuniarie del suo dolcissimo amore dal borsellino bucato.
Rosa per me resta ancora avvolta da un sottile velo di mistero, pur comprendendo profondamente le tumultuose passioni che io cerco inutilmente di cavalcare e da cui ho visto lei invece volontariamente ciclicamente rapita, che dalle vette himalaiane di palpitanti turbinii emotivi l’han scaraventata nei più tenebrosi orridi di apatico scoramento,  non mi è tuttora chiaro infatti dove han tagliato la scena quando dovrebbe comparire un po’ di sano istinto di sopravvivenza.
Perché vederla così fragile preda dei suoi voli pindarici schiantati spesso mi graffia il cuore, siano essi un completino in saldo nella taglia sbagliata, un turgido bignè alla crema spatasciato in terra, un platonico maschietto dall’occhio malandrino o la casa dei sogni piena di bambini.
Ma forse proprio guardarla abbandonarsi sorridente ogni nuova volta come un’incosciente fiduciosa a questi sconvolgenti terremoti dell’anima me la rende teneramente più cara di tante parole.
E tante parole hanno infilato invece nella mia esistenza Porpora, ma ne sono bastate poche per allontanarla.
La meno sognatrice di queste femmine ha fatto parte col suo pepe di una grossa fetta della mia vita, mi ha ascoltato e mi ha parlato lunghe sere quando, scappando disillusa da un giovane marito e da un appartamento ormai troppo stretto per la sopraggiunta castità, mi rifugiai smarrita a casa sua col mio bagaglio di umiliato fallimento, sguaiata spavalderia, un vagone di scarpe della sua misura e un cagnetto sconvolto, per restarci sei mesi.
Presi in quel periodo una riga di ceffoni dal mondo, dagli agenti immobiliari, dai notai, dai muratori, dai mobilieri, dai rivenditori di piastrelle o di elettrodomestici e dallo sguardo di mia madre.
All’angolo c’erano le fide sognatrici che facevano il tifo, ma devo dire il grosso del lavoro di asciugarmi il sudore e ricacciarmi nel ring lo ha fatto Porporina.
Porpora però è fatta di tanto buon cuore e schiettezza di bistecca al sangue, ma anche di lapilli roventi e mortaretti, morde sempre per prima e  ringhia intanto che ti annusa per vedere come ti puoi e ti devi incastrare nel mondo a modo suo. Col tempo terminai di prendere lezioni di vita dai signori di prima e iniziai a vivere da sola, nella mia città, a camminare con le mie gambe, a pensare con la mia testa e a frequentare femmine indigene. Volò qualche parola storta, di quelle che odorano di gelosia e sanno di sete di libertà e cattiva coscienza, di quelle che centrano il bersaglio con la mira che hanno solo i migliori amici, mi accorsi di non riuscire più ad abbassare la guardia con lei, e il sogno si offuscò.
L’ultima volta che i nostri impegni ci hanno lasciato riunire tutte e quattro eravamo a spalare polenta, scartare perizomi di pizzo e sparare sconcezze roventi, che alla fine il caminetto della Rosa ha bruciato per davvero, fortunatamente solo le decorazioni di natale che forse nei suoi scintillanti sogni avrebbero dovuto essere ignifughe.
La grappina finale invece ha frantumato i miei di sogni, di una ka perfetta appena liberata dal carrozziere, strappandomi con una manovra sbruffona il parafango anteriore, e trasformandosi in un incubo per quel pover’uomo in pigiama del fidanzato della Rosa col cacciavite e la torcia in mano all’una di notte per smontarlo definitivamente e permetterci di andarcene tutte quante a nanna, fuori dalle balle, a far finalmente sogni d’oro.

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