mercoledì 7 dicembre 2011

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Faccia d'angelo, cuore delinquente.
Faccia d’angelo si stava godendo al tavolino il tiepido sole di marzo, la brezza marina e le belinate del Secolo XIX a fargli dimenticare per poco i suoi impegni di orario, quando una giovane e graziosa signora gli si avvicinò per chiedergli d’accendere.
I suoi occhi color lattuga non si accorsero del sorriso sconosciuto e un po’ troppo gentile che sussurrava la roca promessa di gratitudine tabagista.
D’altronde le donne erano solo fonte di guai, e quindi molto meglio concentrarsi sugli scivoloni sportivi dei cugini blucerchiati, sulle bugie del mercato immobiliare e sulle politiche di piccoli spacciatori locali.
Perlomeno così era, dall’alto della sua esperienza di ventitreenne.
L’unica ragazza che aveva fino a quel giorno a suo modo amato, gli aveva dato tanto in realtà.
Ma anche una riga di grattacapi, e considerando che era il doppio di lui, e non proprio diplomatica, la cosa si era rivelata a tratti alquanto frustrante,  per una fetta di triangolino scuro tiepido e una scodella di minestra calda.
Che poi, a ben vedere, per carità, in fondo era buona, anche se non una bellezza.
La mamma di lei era una brava persona, anche se forse eccessivamente socievole, l’attuale compagno poi gli aveva offerto un ottimo posto di lavoro, nel suo bar-tavola fredda, a imburrare panini alla mortadella, facendo attenzione a non farsi beccare dai voraci clienti sporchi di calce o di grasso quando li raccoglieva da terra, o a sterminare sistematicamente la colonia anarchica di fuochisti dietro alla macchina del caffè.
Era quindi un lavoro pulito, di grande responsabilità e di pubbliche relazioni, a tratti estremamente creativo.
Tipo quando doveva rovesciare una carriolata di balle dentro le ventiquattrore dei rappresentanti che venivano a offrire sempre la stessa cosa. E ricordarsene con precisione, che poi dopo un paio di mesi, le stesse borse ingrate tornavano puntualmente a chieder soldi.
E soldi non ce n’era, o perlomeno non per loro.
A forza di praticare con rara perizia questa sottile arte, però, qualcuno si spazientì.
Qualcuno che pesava intorno al quintale, e non parlava la nostra lingua, e manco suo fratello, che mangiava la stessa roba, ma pesava un paio di chili in meno.
Allora nel cuore di una notte a Faccia d’angelo la fidanzatina propose una nuova esperienza, un viaggio, al nord, per vedere se l’aria là fosse più salubre per le ossa del patrigno, e anche un po’ per le sue, perché lei lo amava moltissimo e voleva proteggerlo, che la situazione in città si era fatta piuttosto calda.
Al punto che il bar addirittura aveva preso fuoco.
In Belgio l’aria era parecchio fresca, a dire il vero, e pioveva sempre.
E la mortadella non aveva lo stesso colore.
E forse fu per quello che anche Faccia d’angelo iniziò a cambiare colore.
O forse quello fu perché con la fidanzatina avevano trovato un buon impiego, a raccogliere champignons nelle serre, appassionatamente.
Quando alla soglia dei sei mesi avevano assunto anche loro la consistenza dei funghi, si sentirono pronti per farsi essiccare.
E si trasferirono tutti e quattro, con la mamma e quel brav’uomo del patrigno, in Africa.
Lì sì che si stava bene.
Importavano macchinari a gasolio per produrre elettricità.
Era un lavoro necessario, che ogni capovillaggio della zona aveva tre o quattro mogli.
E le mogli, quando tornavano dai pozzi o dai campi tra un parto e l’altro, così potevano unirsi al resto della tribù intorno all’unico televisore e guardare le soap-operas dove i bambini non morivano mai, le donne indossavano scarpe e vestiti bellissimi e gli uomini le corteggiavano per mesi guidando automobili lucenti.
Era quindi un lavoro umanitario, quasi, e poi impegnava sì e no un paio di giorni alla settimana, e il resto del tempo si poteva imparare a vivere all’africana.
Cioè non fare un cazzo, solo sudare e digerire riso fritto nell’olio di cocco una volta al dì.
A forza di sudare passò un anno, e Faccia d’angelo si accorse di non amare più tanto la sua fidanzatina, di avere nostalgia del basilico e di essersi rotto i coglioni di stare nascosto per qualcosa che non aveva fatto lui.
E tornò a casa.
Alla gran festa per il suo ritorno mezzo paese sotto i venticinque anni si riunì intorno a un gran tavolo.
Ci fu un gran tintinnar di bicchieri e girar di piatti.
Girarono tanto che anche finito il cibo i piatti non smisero di scorrere tra i festeggianti.
Girarono tanto che si fece l’alba, a far tante chiacchiere tra vecchi amici, adesso un po’ induriti.
Girarono tanto che arrivò la polizia, ma non in missione amichevole.
E a quel punto Faccia d’angelo diede prova di grande amicizia accollandosi un’imputazione per spaccio, perché in fondo era uno dei pochi incensurati e non aveva manco un lavoro.
La sua mamma fu quindi immensamente felice di averlo a casa, agli arresti domiciliari.
Finalmente dopo tanto viaggiare, lo aveva tutto per sè, lui e tanti amici che venivano a trovarlo, che una volta al giorno venivano anche due onesti giovanotti con la banda rossa sui pantaloni, riservatissimi però, loro mai un cordialino, un bicchiere di bonarda, un caffè.
Dev’esser stato proprio per tutto quel via vai che le venne l’esaurimento nervoso.
E quando smise il via vai al papà invece gli toccò finire tutta la bonarda, e ci prese gusto.
E fu sempre in quel periodo che Faccia d’angelo conobbe la giovane e graziosa signora.
La giovane signora tentò di spiegargli che il resto del mondo si guadagnava da vivere senza cambiare strada quando incrociava una pattuglia, e per un po’ sembrò esserci riuscita.
Ma Faccia d’angelo aveva il suo piano, che era germinato nelle serre nordeuropee, su consiglio di certi coltivatori di tulipani, e che si era irrobustito sotto il sole equatoriale, e adesso voleva essere messo a frutto.
Voleva essere indipendente,  voleva aprire una piccola attività commerciale.
Un negozio tutto suo.
Ma non un negozio normale, il solito erbivendolo o noioso angolo di telefonia pieno di luci e rompiballe, macchè.
Ci voleva qualcosa di nuovo, di diverso, di geniale.
In città mancava, e lui allora decise di aprire uno smart-shop.
Uno smart shop è il tipo di attività che esemplifica come l’ambizione per la buona riuscita imprenditoriale si nutra oltre che di una domanda generazionale perenne del mercato, anche del fine equilibrismo tra il lecito e l’illegale.
La inusuale e divertentissima bottega nel giro di un anno alzò la sua scandalosa saracinesca attirando numerosissimi curiosi acquirenti e feroci critiche per le vetrine gremite di ogni ammennicolo sussidiario al consumo di stupefacenti, o anche solo iconograficamente pertinente, strizzando spesso l’occhio pure a giocattoli birichini e maliziose forme umane.
Fu in effetti un successo commerciale, che tutt’ora continua, placidamente equivoco, credo.
Fu il tormento della giovane signora, che infatti graziosamente si defilò dai giochi dell’ambizioso malandrino, con gran dispiacere postumo e infine rispettabile rassegnazione.
Ma non senza aver accumulato un’esaustiva cultura in materia, oltre a una discreta fornitura di accendini sconci.
E un’altra cosa, più bella e più rara, che nessuno avrebbe potuto perquisirle né sottoporre a sequestro.
Il dono del ricordo impresso per sempre, di un piccolo gesto abituale, quello di sistemarle sulla schiena la maglietta, quando lei alzava le braccia per accogliere i suoi numerosi baci, che Faccia d’angelo non mancava di fare, una delicatezza ingenua che in nessun altro trovò mai più..
Una tenerezza gratuita, da un giovane delinquente, per una storia strampalata che non aveva mai avuto futuro.
Ma che proprio per questo avevano vissuto con tutto il loro cuore.

 


specchio, specchio delle mie trame...
Ieri sera dopo cena son quasi riuscita a far piangere mia madre.
Nonostante quella cara signora sia dotata fin dalla nascita, perlomeno la mia, di un considerevole aplomb britannico unito a una ferrea volontà.
E tutto per una foto.
Nel senso che ci siamo messe a trafficare col suo pc & stampante (la mia è laser), e tra prove, sostituzioni di cartucce, allineamenti estenuanti e programmi incantanti, la povera donna ha davvero perso la pazienza.
Alla fine l’ha spuntata , sospirando vittoriosa,  (ma il sig HP e il sig Gates è meglio che le girino alla larga per un po’.)
Felice solo della ricompensa del mio grato abbraccio per quel dannato cartoncino lucido, formato A4.
Ho poche foto di me, foto in cui mi veda bene.
Di solito resto pietrificata in un’espressione di barbie-bietola, o storta come Quasimodo.
Questa mi fu scattata a mia insaputa (il vecchio trucco) qualche tempo fa da Orsorico, la trovai il giorno dopo scorrendo i ricordi strampalati della serata. Tipico da parte sua, non avvisarmi.
Sua, e da parte di un’altra amica che si diletta spesso a immortalarmi segretamente, con deliziosi risultati. (grazie cari)
Comunque non saprei dire se quella sera sia saltato fuori un suo talento nascosto o il fatto che fosse l’occhio di qualcuno che mi conosce assai bene a fermarmi in quell’immagine o una semplice botta di culo con un po’ d’alcool.
Fatto sta che lì, finalmente, mi piaccio, mi riconosco.
Ci vedo la mia insofferenza per confini troppo precisamente delimitati, il mio continuo vagare pensierosa in una nebbia rosata e il mio serio impegno da clown in corsetto.
Dopo anni di trecce tremende, calzettoni sega-gamba, cresime criminali, divise scolastiche, natali satolli, compleanni rubizzi e gite varie, più un buco di anni che è rimasto a casa del mio ex marito, in una scatola in fondo all’armadio, e poi la ripresa di compleanni sregolati e altre gite varie, e pure qualche serata un po’ sopra le righe, ecco, dopo sta piccola galleria degli orrori, di cui al pensiero che qualcuno possa un giorno ritrovare i negativi mi sveglio sudata nel cuore della notte, beh, mi sa che sto iniziando a venir bene in foto.
Forse la benedetta funzione “canc” delle ormai diffuse digitali ne sa qualcosa.
O forse sto semplicemente iniziando a vedermi bene, a volermi bene, così.
Mi aveva molto colpito recentemente ad una bella mostra di autoritratti di diverse epoche, come nessuno degli artisti raffigurati sorridesse. Forse c’era poco da ridere ai loro tempi a far la vita del pittore, forse la sensibilità innata di chi ha l’animo artista frena la serenità di un sorriso, troppo frivolo, forse quando ci scrutiamo allo specchio in realtà vediamo i nostri pensieri o forse semplicemente è d’uso comune che negli autoritratti  si debba star seri, come adesso per le foto della patente. Boh. 
Io ho sorriso quando un commentatore anonimo la settimana scorsa mi ha chiesto perché non mi descrivessi fisicamente. Ma le caratteristiche standardizzate con cui noi ci riassumiamo a sconosciuti, necessarie per rendere un’idea di come appariamo, purtroppo hanno il loro limite proprio nel fatto di essere generiche.
Troppo poco.
Un dolcissimo e saggio ragazzo, che io allora scioccamente non compresi, disperata per le generose rotondità di ventenne resistenti a qualsiasi digiuno, aveva cercato a suo tempo di farmici arrivare a questa piccola verità, senza risultati soddisfacenti, tant’evvero che ingrata gli spezzai il cuore qualche tempo dopo.
Lo ricorderò sempre: “ma non sei mica grassa, io non ti vedo né grassa né magra, io ti vedo come sei , e tu sei tu, e per me sei diversa, non sei misurabile coi canoni dei tutte le altre ragazze” (sospiro esasperato)
E io mi incazzavo perché volevo essere magra, e volevo essere incazzata perché non lo ero, e me la prendevo con lui, quando in realtà era con la parte di me che non accettavo che ce l’avevo, piccola guerriera.
Ora lo sono, magra. E ho anche qualche ruga in più.
Per fortuna ho imparato a collegare il cervello agli occhi ogni tanto. A vedere oltre.
E a spalmare picchettando bene la pomatina al retinolo sulla pelle struccata.
Quindi non è detto che finalmente non mi decida ad appendere la mia collezione di specchi d’epoca.
Oddio.
E’  che il coraggio di rischiare di farsi sette anni di rogna, proprio ora che vengo bene in foto, non so mica se ce l’ho.

riconversione risorse
sono entrata per un tappetino mouse qualsiasi.
sono uscita con un copricuscino a righe verdi e viola, una sobria cornice  e un vasetto di campanelline celesti.
sono entrata per un vestito rosso.
sono uscita con un paio di deliziosi sandaletti taccati neri.
se dovessi mai sostituire la pila a un orologio,  sarei rovinata.


ottomarzo

allora, mettiamo in chiaro che ieri sera sono uscita NON perchè fosse l'ottomarzo, ma perchè era giovedì.
e dai tempi di mio nonno, al giovedì le disdicevoli femmine escono.
all'epoca era  il giorno libero delle domestiche signorine,  poi diventò la sera che in gonnella si entrava gratis in discoteca, adesso è diventato sinonimo di aperitivo lungo o cena con le ragazze, un rilassato pre-we, una piccola celebrazione per aver doppiato lo scoglio del mercoledì, incubatrice di progetti delinquenziali ormai prossimi e di bubboni guastafeste che inevitabilmente spuntano nel giro di 12 ore,  per forza (di schifezze gastronomiche) e inesorabile puntualità (sfiga).
ieri con la Jolanda, la Ines, la Franca, la Miriam  e la sua silenziosa ma diligente cognata  Luisa  (sono ammirata: dove diavolo li ha messi quei due  mojitos???), si è quindi sfidato per mero principio il rischio di mimose mannare e ci si è  premiate rimpinzandoci di stuzzichini e parole al solito bar, sedentaria palestra delle nostre lingue e lettino da analista delle nostre giornate lavorative.
tanti baci e tanti brindisi, e tante tante chiacchiere.
con inevitabili digressioni, dai miei sandali nuovi e dalle candele profumate dell'ikea, ai rimedi per i cattivi odori domestici (sì, anche in bagno, ovviamente) e alla pedicure primaverile.
questo è il bello delle mie imprevedibili signore.
anche se stamattina alle 6.20 quando ho schiaffeggiato la seconda sveglia (ne ho tre),  ben poco femminilmente  ho imprecato  al ricordo delle  due medie  e  dei miei  orari  di  ricongiungimento al materasso, e rincorrendo con un piede assonnato la bastarda ciabatta fuggiasca al lato del letto mi son sorpresa mio malgrado a brontolare un: eddai, forza alex,  e tira fuori le PALLE!!

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