mercoledì 7 dicembre 2011

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l'inizio
Venerdì scorso la cerniera della mia samsonite si è richiusa rassegnata sbuffando per la terza volta in mezz’ora, tremando spazientita al suono di passi panicati avanti e indietro intorno a lei, un attimo di silenzio, uno schiocco sferragliante alla porta, uno strattone e via.
Si partì.
E subito ci si fermò.
Incastrati nel traffico di una mattina lavorativa, una pioggia battente e i pensieri grigi di chi si immaginava in ritardo per l’ufficio.
Ignari del piccolo tesoro di creme abbronzanti e bikini nascosto nel portabagagli dell’anonima ka lurida e con il tergicristallo pigro ferma al semaforo, e di quella signora dall’aria un po’ da monnalisa in calzoni mimetici al volante.
La serravalle ci ha ricambiato un sorriso continuo di curve per quasi un’ora dopo, a me, ai camionisti e ai papaveri rossi, prima di prenderci a secchiate d’acqua tutti quanti, folgorando pure l’autogrill, meno male che il bagno funziona anche senza corrente elettrica.
Così in tangenziale a Milano, oltre a smadonnare perché in effetti entrambi gli orologi al polso e sul cruscotto si erano messi d’accordo che ero in ritardo, stavo pure a secco.
Gravellona la prossima volta, e magari partendo col pieno.
E la prossima volta pure cercherò il posteggio dedicato.
Sto giro ho benedetto la tariffa proibitiva del park del terminal 2 della malpensa, più ancora che la mancanza di un ombrello quando serve e la felicità col fiatone di non trovare un’anima almeno al banco del check-in.
Li ho trovati tutti al gate invece, i miei compagni di viaggio.
Un piccolo branco multiforme, fintamente tranquillo, identificabile dallo zainetto sinistramente dello stesso colore, pronti a balzare in piedi all’assalto di un posto che nessuno ha intenzione di portargli via.
Tranne che per me ovviamente.
Che ho potuto cordialmente spiegare ad attempata bionda che il posto finestrino corrispondeva alla mia carta d’imbarco, e si vede che per certa gente l’alfabeto si ferma alla c…
E la conversazione pure a quel punto non conosce avverbi di gratitudine.
Ma per fortuna ci sono argomenti di interesse oculare seduti nel posto di fronte al tuo.
Molto piacevoli spiati da tergo, molto eloquenti quando incrociano il tuo sguardo e ci restano impigliati quel tanto che basta per volerne sapere di più.

terra in vista!
rapita dalle malefatte di Bukowski, che, tempo di sorvolare un mondo di identiche soffici e inconfutabili comunicazioni gracchianti di nuvole francesi e poi spagnole, s'era già sbronzato mezza dozzina di volte, accompagnato a svariate signore non proprio perbene, pestato a sangue un vecchietto, violentato una bambina e scuoiato un cane, decisi di concedermi una pausa di serenità studiando il composto contenuto quadrettiforme del vassoietto planatomi di fronte e di ricredermi sull'effettiva perfidia della mia vicina, che comunque armata solo di una forchetta di plastica non avrebbe potuto costituire una minaccia alla mia incolumità.
delle volte mi rendo conto di essere davvero troppo impressionabile.
le maniere a tavola per esempio,  associate agli spazi angusti, possono essere per me una seria fonte di angoscia.
come pure la serena ignoranza altrui dei fondamenti della comune buona educazione.
e del minimo di cultura necessario a compilare un fazzoletto di informazioni (che son sempre le stesse) e che non  dovrebbero giustificare il disturbo arrecato al mio bavoso sonnellino digestivo.
rassegnatami quindi a non potermi perdere a fauci spalancate nei miei sogni di solitudine, assolsi l'opera di carità col sorriso e la sufficiente emissione di fonemi un pò felpati, prima di accorgermi sollevata di essere usciti dalle nuvole.
la brizzolata catena dell'Atlante, con la sua neve scintillante al sole andava incorniciando scarne pendici di terra rossiccia, puntinate di arbusti di barba sfatta sulle guance di un amante mattutino, abbronzato e pigro fino al suo blu dell'oceano.
raccolti un pò di lamenti di circostanza intorno per il solito fastidio pressurizzato, regolato il fuso orario che ci arricchiva di un paio d’ore di sole, seguiti dall'applauso di rito, come se l'atterraggio fosse ogni volta un'incognita prodezza, ho ostentato finalmente un fintissimo disinteresse per l'insistente osservatore di fronte, ben certa di non avere residui di cibo o tracce di pisolini tatuati in volto, verificando di essere ancora in grado di reggermi in piedi.
l'alito caldo e  asciutto di Agadir ci ha sussurrato il benvenuto col suo suadente accento francese dal portellone della nostra piccola prigione volante, prima di scaraventarci in coda tutti stropicciati come pecorelle bianchicce al fresco del controllo passaporti.
il momento che maggiormente temo quando viaggio è quando mi trovo a fissare con preoccupata aspettativa il nastro per la riconsegna dei bagagli.
per quanto statisticamente credo di aver già pagato con 4 smarrimenti  il mio conto con le compagnie aeree di mezzo mondo, la paura resta tanta.
soprattutto se viaggi da sola, e sai quindi di non poter contare su un paio di mutandine e del dentifricio in prestito, condannata alla sensazione di sfiga e sporcizia solinga senza qualcuno con cui poterti degnamente lamentare.
fortuna che l’estenuante scrupolo sudaticcio e baffuto dell’agente all’ufficio visti mi ha risparmiato quei momenti di terrore, e la mia valigia mi aspettava già da un po’, guarda caso proprio poco distante dalla sacca da golf di un certo altro passeggero.
lo stesso che ho ritrovato sull’altoforno gommato a forma di torpedone che ci avrebbe condotto al nostro villaggio, e al quale a questo punto mi sembrava sgarbato non sorridere.
la nostra hostess si chiamava Silvia, una pannosa bionda ben più morbida delle signorine del catalogo, ma perfettamente capace di rassicurarci pacatamente mentre sudavamo come tacchini arrostiti sciorinandoci tutte le spese non incluse nel pacchetto.
poi, prima di accorgerci che l’aria condizionata stava funzionando, arrivammo al nostro piccolo paradiso dove una solerte squadretta di vociferanti animatori biancovestiti ci hanno porto un corroborante calice di lava fusa al sapore di sciroppo di menta marrone augurandoci (e augurandosi) ogni bene per i prossimi sette giorni.
Piastrelle e arredamenti moreschi e la scandalosamente lussureggiante selva di ibischi, bouganville, palme e banani tra un complesso e l’altro han fatto il resto.
Ero arrivata.
E banalmente rassicurata dai comodi orari di prossime nutrizioni e intrattenimenti vari, ho disinnescato la combinazione della mia valigia, realizzando all’improvviso che forse ero davvero in vacanza.

il sabato del villaggio valtur
la donzelletta quì che il sole s'è già da mò levato
si lava come un gatto e cade nei vestiti stropicciati che ha portato
decide ch'è proprio ora di cercare di far colazione
e trottando si accoda ad altri spaesati in quella direzione
c'è tutto un mondo già, al buffet, fatto di bikini inclementi e di ciabatte,
e braghette colorate, canotte di rete, polpacci pelosi e biancolatte
che brulica, buongiorna, si avventa e mastica
(l'italico in vacanza è una razza fantastica)
così, di prima mattina non conosce vergogna
di piatti stracolmi, stomaci e tettoni ostentati,
il pudore manco se lo sogna.
sedata la fame, la mia curiosità si risveglia
affascinata da tutto sto eterogeneo parapiglia
che parrebbe che l'esito del giorno e della vacanza
dipenda da quanto riesci a far entrare nella panza
trovato tavolino ombroso ed appartato
comincio il mio viaggio da spione un pò impunito
non senza essermi chiesta scuotendo la crapa impercettibilmente
ussignù, dove son finita, ma guarda te, che gente...

vita da vacanza
il primo giorno nel sultanato del fancazzismo organizzato scivolò via tranquillo, pigrazzando a bordo piscina, scambiando quattro chiacchiere a tavola con coppie di sconosciuti di mezz’età, esperti di meteorologia e logistica da villaggio vacanze e una madre&figlia che nel giro di mezz’ora di sciorinamento saccente mi aveva forse chiarito intimamente i motivi della scelta – direi quasi obbligata, data la simpatia – di quest’ultima di spendere un mese a spasso per l’africa con la genitrice piuttosto che con più giovani ed avventurose compagnie.
L’indomani cominciavo a sentire scoraggiata il peso della barriera fisica, che ultimamente la mia seconda identità di blogger aveva assottigliato, viziandomi con un’intimità spirituale impossibile da ritrovare qui.
A peggiorare la questione, il fatto evidente ma non dimostrabile con prove tangibili, che la presenza di una femmina sola e di bell’aspetto inevitabilmente gela gli sguardi di mogli e fidanzate, per niente adeguati ai loro brindisi di buon appetito ai tavoli under-40.
Mi venne in aiuto la professionalità degli animatori,  e io ne approfittai, ritrovandomi ben presto coccolata da ragazzi divertenti qualsiasi fosse la loro provenienza lungo il nostro stivale, cominciando a sbattermene degli spifferi femminili delle cerbere muliebri guardiane di ossa da me per niente appetite, imparando poi a rompere il ghiaccio facendole sorridere un po’, di solito dopo il primo giro al buffet, quando il cibo iniziava ad addolcirle, quando il fatto che mi rivolgessi quasi esclusivamente a loro le ammansiva, e conquistandole definitivamente al dolce, che consumavo in dosi scriteriate, probabilmente solleticando in loro la speranza di tornarmene a casa con un culo della loro stessa taglia.
Ho fatto colazione, pranzato e cenato sempre a tavoli differenti, e al terzo giorno ero quasi sfacciatamente a mio agio e in grado di conversare con qualsiasi fascia d’età.
Il mistero dello zainetto identico nel frattempo mi era stato svelato, da uno dei 250 fortunati vincitori di un viaggio premio messo in palio da un loro fornitore di ferramenta, e di solito mi consentiva di avviare discorsi non minacciosi, anche se alla fine qualche volta mi son trovata lo stesso nel bel mezzo di battibecchi coniugali e conferenze sui malanni più o meno imputabili a climatizzazione, raggi uva e libagioni locali.
Se dovessi stilare una classifica sulla tipologia di commensale più piacevole, metterei sicuramente al primo posto alcune coppie di pensionati, dalla parlantina veramente onnivora, da una serena voglia di divertirsi, dalla gentilezza consumata dei gesti per un coniuge col quale han condiviso sacrifici giovanili adesso ricompensati, dalla sincera gratitudine per quelle giornate fatte di rilassanti sedie a sdraio, intrattenimenti divertenti e qualche gita, e nessun pensiero di posteggio, ramazza e fornelli.
Alla fine della vacanza ero stata praticamente adottata, con una lista di loro figli e nipoti single da dover assolutamente conoscere, forse non avevano capito che non era quello che andavo cercando.
O forse lo avevano capito meglio di me…
Ho goduto pure della compagnia di certe mie quasi coetanee, conosciute a colazione una mattina. Che spiando le loro conversazioni non ho potuto trattenermi dal ridere, quando, guarda caso, le ho sentite cercare dissimulatamente di parlare di cacca. Ovviamente le ho amate subito, mi sono permessa di complimentarmi con loro, che ascoltarle non mi faceva per nulla rimpiangere uno mattina, e spero di essere riuscita a farmi apprezzare anche da loro, in seguito incrociandoci e fermandoci a chiacchierare e fotografarci spesso.
Assolutamente da evitare in villaggio le coppiette sulla trentina. Al terzo bicchiere di vino ti spiattellano tutti i difetti del compagno e tu finisci per nasconderti dietro il buffet dei contorni caldi a comunicare di politica giapponese a gesti col cameriere piuttosto che tornare al tavolo e riconoscere che i tuoi coetanei felicemente sistemati sono in realtà pieni di rancore, hanno dimenticato che l’intimità non deve cancellare il rispetto per l’altro, e si ritrovano tristemente incapaci di apprezzare la fortuna che hanno.
Le famigliole con bambini invece andrebbero confinate in una sala a parte, anzi magari in un altro villaggio, o un altro continente per favore.
Gli ultimi giorni ero felicemente autonoma, conoscevo quasi tutti, un sorriso e una battuta dietro l’altra, sfuggendo abilmente i pericolosi e le lagne e accompagnandomi con aggraziata libertà a chi preferissi, una piccola abbronzata pascià, consapevole di dovermi portare a casa metà dei libri neanche aperti e la roba da palestra quasi tutta pulita, ma con la inspiegabile certezza di avercela fatta, a divertirmi e stare bene, benissimo da sola.
Che poi, a dirla tutta, proprio sola sola non son tornata…

bestiario da villaggio - le chicche:
- "io ho pagato per essere animato"
(io invece dopo averlo sentito, a momenti dovevo essere rianimata)
- "sono le cinque, ma questo in realtà è il sole delle tre, che il fuso orario l'hanno inventato per i turisti, così sfruttano meglio la spiaggia"
(e han più tempo per pensare..)
-  " tu l'hai letto xxxx,  l'ultimo libro  di xxx?"  " ma sì, guarda, l'ho sfogliato"
(guardando solo le figure?)

lancia spezzata
mi dice con le sue erre da forestiero: “il paradiso terrestre si trova in tre posti:
tra le pagine di un libro, in sella ad un cavallo e tra i seni di una donna.
sapere, libertà e amore.”
sono sinceramente incantata.

marrakesh, la rossa.
Nel cuore della mia vacanza da villaggio, il quarto giorno, e praticamente pure in quello della notte (partenza alle 4..) resta la sensazione di aver stretto nel pugno un piccolo sogno.
Che ancora per giorni mi sono chiesta se l’avevo davvero visto quel posto, o se piuttosto solo immaginato.
Marrakesh.
Rosa la sua terra, i suoi muri impolverati di scrigni domestici preclusi e i tanti suoi fiori.
Rosa cupo il campanile del minareto che ci ha ammonito facendoci largo tra le sue vie.
Il solito torpedone ci ha vomitato sospirando, col nostro scintillar di carni chiare e teleobiettivi, e senza voltarsi se n’è andato lasciandoci a guardarci intorno.
Motorini ammorbanti, peggio che gli onnipresenti somarelli, carretti, catorci ammaccati e tombini ruttaroli, traffico di umanità di ogni colore e forma (e richiesta) ci han sfilato accanto fino all’ingresso del palazzo di Bahia.
L’abbraccio profumato di oleandri e banani poi fino al pizzo policromo di maioliche, marmi e soffitti affrescati. L’incanto immaginato del rumore di passi di quattro mogli e ottanta concubine, in un dedalo di decorazioni, cunicoli, sale e cortili, e il gentile ma severo invito in più di tre lingue ad essere ospiti rispettosi, più di chi ci avesse preceduto, giustificando la scarna attuale assenza di mobilio di quei luoghi.
Altra opulenza ci attendeva altrove, nel suq.
Misteriosi alleati della nostra guida ci seguivano, sentinelle silenziose per chi avesse voluto peccare di shopping. Ma onestamente son più le ricchezze da guardare e serbare nella mente, che quelle che puoi comodamente trovare nel negozio etnico sotto casa.
Mi sono attardata a spiare una volta sola.
Un piccolo vicolo laterale.
Un giovane uomo catturare con la mano un minuscolo uccellino.
Accortosi di me, gli ho visto il gesto di portarlo alla bocca per strapparmi un no sbigottito, gli ho scucito un gran riso, che era solo per gioco, trovando quindi un silenzioso tornaconto nel mio, più sollevato, e poi, richiamata, un cenno veloce di saluto della mia mano, che non abbiamo mai avuto bisogno di parole.
E sollevati pure i miei occhi da lì a poco si sono perduti, accecati dal blu del cielo che sgomitava tra gli arcobaleni cangianti dei tintori, appesi leggeri come ali di farfalle giganti fino a sfiorare i miei fianchi ondeggianti, e farmi lacrimare con il puzzo irrespirabile della fatica del loro lavoro.
Una virata secca e un assordar di martelli e incandescenti battiti, nel cuore del quartiere dei fabbri.
Un groviglio di metallo, ruggine e ruggir di fiamme. E in mezzo al nero tanti occhi di bambini.
E in mezzo a tanti occhi la mia triste felicità. Cosa mi leghi l’anima al ferro io ancora oggi non l’ho compreso, cosa pieghi la sua dura resistenza l’ho capito dalla forma dolorosa di quelle piccole mani.
Mani grate a chi gli sta insegnando un mestiere, che non le farà chiedere un giorno allungandosi con un lamento, con la cantilena di chi elemosina altro metallo.
E dopo le mani, i piedi.
Una distesa di babbucce di ogni punta, tacco e colore. Scintillano di perline e di piccoli bozzi le botteghe dei ciabattini, come banchi e grotte di coralli frastagliati, intorno al loro pescione bipede che ci osserva tentatore come una murena in cerca di prede da spolpare...
E poi all’improvviso il mondo si allarga.
E tu non riesci a seguirlo abbastanza veloce da capire.
Capire che quello che stai attraversando è tutto vero.
Non ho mai visto qualcosa come la Jamaa el fna.
E ancora oggi quando guardo la luce dei miei giorni italiani che si fa rosa nelle ore della sera, resto un attimo a fantasticare di quel che da lì a un paio d’ore avverrà in quella piazza magica al calar del sole.
Immenso circo lastricato e rovente, brulicante di braci di spezie e odoroso di spremitori di agrumi.
Venditori d’acqua e di acrobazie, cavadenti fieri del loro bottino d’avorio umano un po’ ammaccato, incantatori di serpenti e scimmiette malandrine, cartomanti, cantanti, giocolieri, tamburini, giovani e anziani senza tempo, tutti pronti a chiederti una moneta, a venderti una foto di te nel loro mondo.
Ma il loro mondo non è di questo mondo.
A metà della piazza te ne rendi conto.
Qualcuno trema, e resiste.
Io invece avevo finito i soldi, e così mi sono lasciata dolcemente rapire.
La sensazione di essere circondata dal suo alito caldo, dai suoi occhi, dai suoi suoni, quasi sollevata da terra come per un passo di danza da braccia invisibili e senza paura – giuro non avevo (ancora) bevuto – è qualcosa che non riesco ancora a spiegarmi se non per la magia stessa di quel luogo.
Poi la sedata frescura del nostro ristorante, la giunonica danzatrice del ventre e qualcosa da metter nel nostro, di ventre da turisti.
Cuscus, pollo al limone e arancio alla cannella.
Una giornata incredibile, saziante per lo stomaco e pure per quel mio solito caprino cuore.

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