mercoledì 7 dicembre 2011

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Sangue blu
Venerdì sera miss Jekill in astinenza di lussuose coccole, cenò con l’uomo più bello che da sempre conosca e che più di tutti ama, il principe Lupizz, in doppia coppia con la bellissima Madonna Mammolah  e la spassosa Biscia Gaia.
Ogni tanto ci capita di aver voglia di viziarci, regalandoci intime cene in sontuosi ristoranti dove sommelier e gestori accoglienti ci spennano col sorriso offrendoci la rilassata possibilità di fare ognuno il punto delle proprie indipendenti esistenze, cibandoci di sopraffino ed elegantissimo nettare e sputando piccoli veleni pettegoli e sincere grasse risate.
E anche in questa occasione le aspettative sono state ampiamente soddisfatte, da succulenti lombatine d’agnello e maialetti da latte, dissetati da uno strepitoso Amistar rubino, adeguatamente apparecchiati con finissimo tovagliato di lino, scintillante cristallo, immancabile forum sentimentale e conto assassino.
Il profondo e complesso sentimento che lega miss Jekill e il principe Lupizz non è frutto di passeggere infatuazioni, non è una favola rosa di sospiri e surrogati, e spesso genera un alone di curiosa meraviglia intorno ai due.
L’amore tra questi due fratelli infatti può suscitare gentile invidia o turbamento in chi occasionalmente li ha scorti sfiorarsi le labbra con un piccolo bacio, lunghissimi abbracci e risate scoppiettanti innescate da un semplice sguardo.
Un occhio malizioso e superficiale non riesce a cogliere ciò che è maturato dopo lunghi anni di alterne vicissitudini, gravi avversità, sana gavetta e botte da orbi.
Dalla necessaria coalizione contro l’inespugnabile muro di collettive cucchiaiate di legno e ciabattate sulle chiappe che una lungimirante regina britannica e il suo più pacifico consorte, padre raramente castigatore, avevano eretto a democratico contenimento della nostra vivacità infantile, ai violenti pestaggi tra chi di noi aveva lasciato l’auto a secco, fino alle più anarchiche vacanze ibizenche o sregolate scorribande notturne che i due principi  hanno condiviso durante le loro esistenze.
Mio fratello mi conosce meglio di chiunque altro essere umano, e non si nega la sottile gioia di prendermi per il culo per questo mio modo strampalato di essere, ma che ama, scuotendo il capo, con una piccola ruga preoccupata in mezzo ai suoi occhi blu.
Ma ovviamente sta a me riconoscere con tempismo salva-pelle&tempo la vena che gli si può gonfiare sul collo o l’impermeabile assenza dei suoi “mmh..mmh..”
Più giovane di me, in realtà più adulto, con tenerezza gli vedo spesso piegare una rigorosa logica maschile e una impavida capacità di mordere la vita, per seguirmi nel mio mondo di speranze, di sogni, dolcemente coerente quando mi porge una scala per scendere dalle nuvole, forte nel raccogliere chi si aspettava che inevitabilmente cadesse, inciampando da sola, per spalmarle brontolante un po’ di lasonil sul bernoccolo o l’occhio nero.
Venerdì sera però era il suo turno di rialzarsi e spolverarsi il dietro dei pantaloni dopo un ruzzolone.
Purtroppo in questi casi sappiamo entrambi che è solo compito nostro rimetterci in piedi, anche se la consapevolezza di avere qualcuno accanto che farà sempre il tifo per te è di dolce aiuto, in attesa di vederti tornare più stiloso di prima, ancora più sorridente, col tuo abito migliore, fresco di tintoria.
Nel frattempo dalla “cenetta tranquilla”  abbiamo con onore scapicollato tra locali, bar e balere fino alle cinque del mattino, ridendo e chiacchierando, fino a che sono stata affidata ad un’educata coppia di cavalieri amici, che mi scarrozzasse al mio piccolo palazzo, ancora una volta in cerca di una scusa plausibile per far saltare l’indomani il mercato a mrs Hyde.


Non di solo pane...
Sabato un’altra cena, di tipo ben più numeroso e cinguettante di quella della sera precedente, aspettava di essere consumata da un’affamata miss Jekill.
Per una fortunata occasione, sapientemente coordinata dalla Miriam e dalla Jolanda, erano riunite intorno a un tavolo undici femmine e uno sparuto coraggioso paio di maschi, affiliati per motivi sentimentali, raddoppiati in seguito, con accondiscendente affetto.
Totale 13, causa la defezione della povera Ines, caduta vittima del virus influenzale, con mia assoluta e menefreghista serenità nei confronti di popolari credenze, scoprendomi per una volta contenta di esser la  più anziana commensale, seppur con sommo dolore per la debilitante malattia di una delle migliori baciatrici degli ultimi weekend (guarisci presto mia cara!) nonché prodigiosa forchetta.
Ricordo da ragazzina quando indagando sui passatempi dei miei genitori trovavo strano sentir loro intonare sempre lo stesso ritornello “ieri sera ci siamo molto divertiti: abbiamo mangiato…”
All’epoca il mio concetto di divertimento era più simile all’arrembaggio slinguazzante di un divanetto buio in discoteca o un festino alcolico che mi riducesse uno straccio, forte di un cuore incosciente e di un fegato giovane e testardo.
Col tempo ho imparato a gustare attività ricreative più profonde, nel senso di percorso digestivo che non finisse vomitato dietro un cespuglio, ma anche degli affetti.
Posso comprendere, ma con dispiacere, chi per carattere mal tollera di trascorrere la serata imprigionato tra una sedia e un tovagliolo, perché personalmente preferisco non considerare le cene con gli amici come un semplice riempirsi lo stomaco, ma anche l’anima.
Amo infatti saltare da una conversazione all’altra quando le tavolate e i tempi tra una portata e l’altra inevitabilmente si allungano, concedendomi di ascoltare le vite parlate che conducono persone a me care, giocando a rubar dal piatto le loro singole scelte dal menù e le piccole avventure delle loro giornate, come pure il sorriso di una battuta sciocca o lo sfoggio di nuove suonerie.
Finisco così satolla come un porco pentito, perché sono inguaribilmente golosa, ma anche pasciuta di dolcezze umane, di quelle che non fanno ingrassare, ma rendono più forte, più sana e più ricca la mia esistenza.
E 30 euro per un pasto così, vino, caffè e limoncello incluso mi sembra tutto sommato un prezzo accettabile (dannato euro).


Etnie antimeridiane
La domenica mattina un bizzarro popolo pio e goloso riempie marciapiedi e sentieri collinari.
Lo osservo attraverso la discrezione delle mie lenti scure, in ordinata processione alle vetrine delle pasticcerie, il breviario delle notizie urbane scrupolosamente ripiegato sotto un braccio, oppure avidamente frettoloso, a piccoli rispettabili passi, per saziare le proprie anime affamate di speranza e sacre scritture.
Un’altra pacifica tribù nomade di pedule, ginocchia abbronzate e zaini colorati pattuglia le pendici delle alture cittadine, convivendo con quella sudaticcia di glutei ondeggianti, più o meno intrigantemente soda, su sferraglianti sellini.
Il sole domenicale però risveglia dal letargo anche strani rarissimi esemplari, che scelgono di collaudare eleganti mocassini su polverosi percorsi sterrati, o di portare a passeggio cagnolini in braccio o anche solo di incantarsi innamorati a spiare la danza di una farfalla, completamente ignari di aver affondato nel frattempo un arto in un fumante brusio di mosche e sotta equina.
Al mio ritorno famelico verso l’ombrosa quiete domestica non v’è già più traccia dei popoli antimeridiani, ormai riparata coi piedi sotto il tavolo, scalzati  dagli inizi della transumanza del curioso ceppo umano sciarpo-dotato, che in piccole frotte inneggia ironici cori di battaglia.
L’indomani forse non li potrò riconoscere così bene, ognuno di noi mimetizzati dalla tirannia delle nostre incombenze feriali.

abate irriverente
La scelta doveva essere ponderata.
Appoggiandovisi, il profilo d’acciaio, gelido, trapassava la sottile camiciola, distraendola con brividi inaspettati dal confortevole torpore mattutino.
La scelta quindi doveva essere ponderata, ma rapida.
Una mano esperta, più dell’occhio, avrebbe risolto necessariamente la questione.
Un pensiero alla forma, familiare eppure maliziosa: una goccia, un seno, un piccolo corpo di donna, un delizioso segreto per il contadino.
La consistenza asciutta della pelle, sottile, a celare morbida i suoi succhi.
Aveva scelto. Ora occorreva sistemarsi più comodamente.
Scivolò in appoggio sulla sedia, limitando più possibile la carezza di plastica ancora troppo fredda, alle sue cosce,  denudate dal tessuto accorciatosi traditore, nel gesto, sporgendo in avanti il busto, inarcando istintivamente la schiena, ripiegando leggermente la nuca all’indietro.
Dischiuse le labbra, per un primo avido morso indagatore.
Sapeva quello che stava facendo, eppure imprecò di svogliata sorpresa.
Mentre puntuale quella pastosa, granulosa dolcezza le scioglieva la lingua, un gemito soffocato, un malandrino rivolo scorreva la pelle del mento per annegare sofficemente poco più in basso, inscurendo la candida stoffa, rivelando in trasparenza un turgore di picciolo rosato.
E solleticando un’altra fame.
A dispetto del casto nome, quella pera succosa e ribelle era riuscita a svegliare più torbidi bisogni.

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