mercoledì 14 dicembre 2011

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26 luglio 2007
Quello non era un giovedì come gli altri.
Non che i giovedì siano mai tutti uguali, a parte il puntuale sollievo post pavloviano-grugnito-da-sveglia di realizzare che l’indomani sarà quasi sempre il giorno migliore della settimana.
Ma intanto quel giovedì era ancora un giovedì, anche se più o meno già alle seiequarantadue.
Con tutto che non c’erano stati raid notturni delle pestifere succhiasangue a turbare i sonni di bellezza russante della ignara nostra, non c’era verso di strapparsi dalle lenzuola tiepide, forse ci stava andando un po’ sotto con due fornelletti del vape, e magari una mattina la trovavano stecchita pure lei, come la povera buonanima della Marilyn, ma profumata di citronel n.5...
Probabilmente poi sarebbe stato un bel giorno di sole, come ci si aspetterebbe da qualsiasi giorno infrasettimanale del mese di luglio, da quelle parti, se non sei in ferie, però.
Era – a pensarci su in mezzo ai cuscini un altro paio di minuti - un giorno speciale, perché Miss Jekill la sera avrebbe festeggiato il ridicolmente giovane compleanno di tal gran bionda, la Jolanda, assieme al suo piccolo stuolo di femmine zufolanti, e mannaggia non sapeva ancora cosa mettersi.
Ma era pure un giorno eccezionale, uno di quelli che ti capita rarissime volte nella vita: è che quando ti svegli, tu mica lo sai.
Allora con un pigro barcollamento verso il bagno, e appoggiando l’occhio aperto sul lato del lavandino ti viene in mente una domanda, e così sbrighi una certa faccenda con noncuranza, inveendo perché non si apre quella bustina lunga e stretta e poi sventolando il contenuto làsotto augurandoti di mirare giusto, tanto per mettersi in pace l’animo e l’amica pettegola che t’ha insinuato il dubbio (e c’ha scommesso un aperitivo)  e rassegnarsi ad aspettare ancora un paio di giorni.
E invece qualche minuto dopo sei lì che guardi quella stecca di plastica e poi il foglio spiegazzato con i suoi bei schemetti esplicativi a prova di idiota.
Stecca foglietto. Stecca foglietto. Stecca foglietto.
E quella finestrella con la doppia riga celeste.
Porca vacca.
E ti dimentichi che è un giovedì.
E ti senti un po’ un idiota.
Perché era prevedibile.
Ma tu non lo avevi previsto.
Perché pensavi che se non era successo prima oramai non sarebbe più successo.
Perché pensavi che sono cose che succedono solo agli altri.
Perché pensavi che.
Un cazzo.
Se ci avessi pensato meglio tre settimane fa adesso saresti già colazionata e docciata, invece che stra in ritardo per l’ufficio, oltre che col ciclo.
E poi succede un’altra cosa, quel giovedì.
Succede che mi guardo allo specchio e vedo una che mi sorride.
Un sorriso da idiota, appunto.
Un sorriso sorpreso.
Eppure un sorriso sorridente.
Sei incinta bella mia.
Ecco che c’è.
E adesso però quella bocca chiudetela anche voi, che vi ci entrano le mosche.
Il passo successivo, per una normale, quale sarebbe stato?
E che ne so.
Conosco rimedi efficaci per le sbornie e i cuori spezzati, per i bubboni purulenti improvvisi e la cervicale, per le indigestioni, la stitichezza e i peli incarniti, per i camionisti molesti che il cancello “lo escono” a destra e le commesse maleducate che insistono che la scarpa “cede”.
Ma questa roba qui non ti capita mica tutte le settimane.
Non essendo quindi una situazione normale, la mia ignoranza non mi ha turbato granché.
Ho semplicemente detto boh.
Mi sono rigirata il mio segreto nuovo, come un chupachùz al uatermelon, con giusto un’occhiata ogni tanto allo specchio a controllare che non si vedesse quell’aria da “ma và?”, tipo bozzo sulle guancia.
Ma mi sembrava di avere la faccia da tutti i giovedì.
E allora intanto sono andata a lavorare come tutti i giovedì, in ritardo pauroso e bruciando un paio semafori gialli.
E accendendomi la solita siga dopo i caffè mi sono sentita un po’ stronza.
Poi sono andata in palestra pensando che presto sarei diventata un’orribile balena con le gambe a papera e le vene varicose, e ho accarezzato con malinconico affetto quella bastarda della panca da addominali.
Ho fissato un appuntamento con la mia dottoressa preferita (è la più simpatica, tra le dottoresse che mi mettono le mani addosso e nel portafogli nell’arco di un anno) per la settimana successiva.
Verso le cinque ho salvato le mie malefatte quotidiane sul  pc che tanto avrei dovuto ricontrollare molto bene, magari anche lunedì, e ho iniziato a concentrarmi seriamente su cosa mettermi e quanto avrei bevuto al festino della bella Jolanda.
Invece quella sera non mi sono ubriacata come a tanti altri giovedì.
Ero in un mondo tutto mio.
Per carità, non c’è stato piatto di sfiziose porcatine che sia passato indenne sotto il mio naso, che magari il cervello sarà pure sconnesso, ma le mascelle se la cavano alla grande in automatico, sia per le delizie in entrata che per le belinate in uscita.
E per la prima volta in anni – giuro, anni - mi son goduta lo spettacolo degli altri che davano i numeri, della mia vita che forse stava cambiando, se sceglievo di dargliene la possibilità, e poi pure gli anni nuovi della festeggiata e il suo bellissimo braccialetto scintillino nuovo nuovo che se non le fosse piaciuto, quello si poteva facilmente cambiare.. 
Certo che l’alcool fa degli strani scherzi.
Ma mai quanto il destino.


 
27/07 - e mò?
Non sapendo ancora come prenderla – sta cosa – l’ho tenuta un po’ per me.
C’è stato solo uno che mi ha fatto una domanda un po’ diretta al telefono, del tipo come stai, ma un po’ più specificatamente mirata a certi appuntamenti mensili della donna moderna residente in riva al mare che – fatti due conti -  se il fine settimana precedente se lo sognava di paracadutarsi figuriamoci spararsi 300 km in auto, gli avrebbe procurato immenso piacere avere sottomano da stropicciare lassù dalle sue parti la sera successiva più o meno verso ora di cena.
Forse gli ha fatto un po’ meno piacere sapere -  con poca misericordia, lo riconosco - cosa bolliva in pentola.
O cosa lievitava in forno.
Insomma quella roba lì, che era papà.
Il giovanotto non si è perso d’animo, o perlomeno, dopo un paio di minuti ha ripreso conoscenza: “ne parliamo quando vieni su, l’importante è che stai bene”
Io non lo so se sono gli ormoni o tutte le storie che si sentono in giro, e il fatto di frequentarci da appena tre mesi, ma a me quella frase m’ha fatto cagare addosso.
Non per niente la sera stessa ho sognato che mi strangolava e mi lanciava giù per un dirupo, che manco i camosci più sgamati, le marmotte mannare o le stelle alpine ci sarebbero mai andati, e che poi si portava via la mia auto quasi nuova e il mio cane dentro.
Ed è stato proprio quest’ultimo particolare a non farmi prendere dal panico, che era tutto un sogno.
Per ora sappiamo talmente poco l’uno dell’altro, che abbiamo solo da imparare, magari un po’ più alla volta.
Per esempio ad usare contraccettivi più efficaci.
Il weekend è passato a coccolarci e prenderci per il culo.
Qualcuno s’è pure mezzo ubriacato e fumato un pacchetto di marlboro rosse.
Che altro si poteva fare?
In effetti qualcos’altro di assai divertente s’è fatto.
Ma quella è roba nostra, e visti i risultati di giovedì non mi sentirei tanto di fare l’espertona che dà consigli...

02/08 - punti di vis(i)ta
martedì 4 settembre 2007 0.13
Il passo successivo, anche per una che non è normale, è comunque andare dal medico.
Nello specifico, dopo aver cambiato un paio di ineccepibili professionisti dagli studi tappezzati di attestati che hai comodamente tutto il tempo di imparare a memoria a suon di vivaldi, e dal piglio un po’ troppo razionale in fatto di turbe della metà del cielo che li manteneva, per non uscirne rivestita ma in mutande e insoddisfatta, per i miei esami di routine un paio d’anni fa avevo optato per un ritorno all’ovile da diciottenne, il caro vecchio Consultorio.
Là, dalla ruvida accoglienza della sessantottina incartapecorita che mi passava da dietro allo stesso immutato banco della reception la mia cartelletta medica fossile e un numero come dal salumiere, avevo scoperto con commozione che oltre a non essere mai stata dimenticata, io e i miei malanni di adolescente, la quota per la tessera annuale si era adeguata all’euro onestamente e le pareti invitavano a non sentirsi sola nelle stagioni della vita.
La sala d’attesa abitualmente multietnica e trasversale, ad agosto ospita comunque una sola tipologia di paziente: la mezza dozzina di impiegate occhialute che per quale che sia il motivo non è  in vacanza e ne approfitta per sbrigare le proprie “faccende personali”.
Entrando avevo appena notato due ragazze fumare sull’uscio parlottare a testa bassa – invidiosa più per l’impunita inalazione di nicotina che per l’età: l’espressione scazzata da ventenne, col solito ingrato jeans a vita bassa, che davanti sega la gamba, e dietro sega i fianchi, esaltando il rotolume posteriore in tutto il suo ignorato (inconsapevole?) trionfo.
Per strada non sarebbero state diverse da tante coetanee.
Ma una volta sedute anche loro  in quella stanza d’attesa c’era uno sguardo preoccupato posato sul vasetto che la più morbida aveva in mano e c’era un’aria di tutto-sotto-controllo sul viso dell’altra che mi distrasse dalle mai più senza ricette di involtini di cetriolo e salmone e fagottini di indivia, caprino ed erba cipollina di D di Donna di qualche semestre fa.
Posso solo immaginare che fossimo lì per lo stesso genere di “imprevisto”.
Il tempo però che non aveva ancora segnato quei musetti li stava contraendo in una smorfia di angoscia, perché crescessero in fretta in quelle settimane senza libri di scuola.
Ho rivalutato in quel momento le piccole rughe ai lati dei miei occhi, per come mi aiutavano a guardare liberamente alla scelta della mia inaspettata e ancora quasi ignara maternità.
Un po’ meno quando strizzandoli forte fissavo dove la mia dottoressa come una maestrina appassionata cercava di spiegare alla sua allieva ripetente e zuccona, puntando il dito su un pasticcio grigietto spalmato su di uno schermo nero, che quello era il teorema che funzionava da secoli, e il mio compito a casa per i prossimi mesi sarebbero stati lo studio sistematico di divertimenti analcolici e severissime sottrazioni di nicotina e salumi.
Porca vacca, ero davvero incinta.
E adesso?

04/08 - conosci il tuo nemico
Intanto che io prendevo coscienza della mia condizione di canguro glabro – che delle volte le cose ti saltano nella vita con una sconcertante malizia da cecchino scelto  – sabato piombavano ospiti dei miei genitori i parenti british in olidei, per tutta la uick.
Che se una si fosse voluta eclissare a casa propria a capire un attimo come mai la razza umana non si è estinta in duemila anni pur suonandosele di santa ragione, grazie alle femmine della specie, non c’era verso, che s’aveva invece da presenziare, e più della regolare singola seduta del lunedì, alla magione materna e pure armata di gelato, mi raccomando.
L’aggravante fortuita che gli ospiti fossero una giovane cugina e consorte e la di loro piccola erede, un’ugola di undici mesi dai boccoli angelici, fari celesti e didietro carenato, la velocità 4X4 di una faina rosa e manine obliteranti perennemente a caccia non è che l’ennesima conferma che Murphy ad Einstein gli caca in testa.
Da anni ormai pratico con accanimento il proposito di cogliere sempre il lato se non proprio positivo, almeno utile delle cose.
Così ho volutamente scorto sul volto di mia madre lampeggiare la riprovazione solo un paio di volte (pur essendo io certa che scattassero ciabatte ai miei tempi) e sul quello di mio padre un non so ché di beato rincoglionimento.
Ora.
Per chi mi frequenta da tempo, e magari non gli è venuta una cricca leggendo più sopra, la domanda sorgerebbe spontanea.
Per chi mi legge da un annetto – ma forse anche meno – gliela spiego in due parole, anzi cinque.
Io – non – amo – i – bambini.
Mai amati. Manco da bambole.
Sono arrivata nei pressi della quarantina ben conservata dribblando battesimi e perdendo strategicamente di vista amiche in via di riproduzione. Dissapori famigliari mi hanno tempestivamente allontanato dalle nascite nel ramo paterno, ritrovate poi verso le cresime, e la Manica mi ha preservato dal contatto coi frugoletti della stirpe nordica, god bless them.
Non ne ho mai preso in braccio uno, per il terrore che si divincoli felinamente,  mi cada e si fracassi.
E lì mica che il calzolaio te lo rimette a nuovo in una settimana.
Comunico scandendo le mie parole con l’intonazione di un essere umano nel pieno possesso delle sue facoltà, anche se certi maschi fan finta di non capire.
Mi vesto abitualmente curando i particolari con la quasi certezza che non mi verranno strappati di dosso entro sera, salvo che su mio invito.
Non nascondo di provare spesso frustrazione quando le mie cene, eventualmente prive della compagnia del mio quattrozampe bandito da cartelli razzisti  e severi ristoratori, vengono funestate da vicini commensali alti quanto una sedia, sguaiati, capricciosi, ipercinetici e bellamente ignorati dai genitori, che evidentemente diventano sordomuti al compimento del primo anno di vita del pargolo.
Trovo assolutamente fastidiosa l’espressione di onnipotenza che i cattivi educatori sfoggiano ignari del fatto che l’aver generato un futuro bipede non li autorizza ad accampare privilegi sul mio diritto alla tranquillità nel tempo libero, a quello di accesso al parco col mio cane che non morde se tuo figlio non lo carica con il triciclo o lo centra col pallone come un bersaglio della play mentre tu chiacchieri, che anche se sporca ha qualcuno che raccoglie, a differenza dei vostri piccoli impuniti disseminatori di lattine, cartocci e giocattoli rotti.
Io reclamo infastidita il mio posto in coda dal fornaio seppur per la strisciolina di focaccia da un miserabile euro, e difendo la mia precedenza nell’occupazione di un tavolo anche se sono da sola, semplicemente perché sono arrivata per prima, e non perché strillo, pesto i piedi e arricchisco il gestore con un morso svogliato a un po’ di tutto, magari cercando poi pure di avvelenare con gli avanzi il quadrupede dormiente di quella scontrosa zitella accanto..
Quindi forse non è che non mi piacciono i bambini.
Mi sa che in generale non mi piacciono i genitori.
E allora forse c’è speranza, nella situazione in cui mi sto andando a cacciare.
Invece i nonni, lì, ho idea che son proprio spacciata.

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